Ecodelitti. Inquinamento ambientale e discarica
Pubblicato da Lexambiente in Ecodelitti · Lunedì 16 Ott 2023
Ecodelitti.Inquinamento ambientale e discarica
Cass.Pen. Sez. III n. 39195 del 27 settembre 2023 (UP 3 lug 2023)
Pres. Ramacci Rel. Galanti Ric. Benedetto ed altro
Le norme che disciplinano la gestione del percolato all’interno di una discarica concorrono sicuramente, da un lato (in quanto norme primarie), a valutare la condotta in termini di abusività e, dall’altro, a circoscrive l’ambito della norma precauzionale da rispettare. Numerose norme contenute nell’articolato del d. lgs. 36/2003 (art. 8, comma 1, lettera e) ed i), articolo 11, articolo 13, comma 1, nonché degli allegati al decreto (punti 1.2.1., 1.3, 2.2 dell’allegato 1) evidenziano infatti come, sia nella fase di gestione operativa che di gestione post mortem della discarica, gravi sul gestore, pubblico o privato che sia, un preciso obbligo di: 1) Ridurre al minimo il battente del percolato; 2) Prelevare il percolato, trattarlo e smaltirlo; 4)Ridurre il più possibile la produzione di percolato da precipitazioni meteoriche; 5) Porre in essere tutte le azioni possibili al fine di evitare la tracimazione, il ruscellamento o comunque il rilascio di percolato al di fuori del perimetro della discarica. Tutte queste attività rientrano nella posizione di garanzia che la legge pone in capo a chi, a diverso titolo, realizza o gestisce la discarica, la cui violazione integra, senza dubbio, gli estremi della «colpa specifica», in cui la valutazione sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento assume natura semplificata.
RITENUTO IN FATTO
1. con sentenza del 23/09/2022, la Corte di appello di Potenza confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Matera in data 07/09/2021, condannando:
a) Benedetto Nicola alla pena di mesi quattro di arresto ed euro 2.000,00 di ammenda, per il reato di cui all’articolo 256, comma 3, d. lgs. n. 152/2006 (Capo A), per avere nella sua qualifica di l.r. della Teknoservice s.r.l., realizzato e gestito (in cooperazione colposa col deceduto Giannace Maria Giovanni, tecnico del comune di Pisticci) una discarica abusiva in Pisticci; reato accertato il 12/06/2018;
b) Grieco Antonio alla pena di mesi undici di reclusione ed euro 4.444,00 di multa per avere, nella sua qualifica di dirigente del Settore Ambiente ed Ecologia del comune di Pisticci (in cooperazione colposa col deceduto Giannace Maria Giovanni, tecnico del comune di Pisticci), cagionato l’inquinamento colposo delle acque superficiali site in Pisticci, in adiacenza alla dismessa discarica comunale, per effetto del rilascio di percolato di discarica. Reato accertato in epoca anteriore e prossima al 20/06/2014.
2. Avverso tale ordinanza gli imputati propongono, tramite i rispettivi difensori di fiducia, ricorso per cassazione.
3. Il ricorso di Benedetto Nicola.
3.1. Col primo motivo di ricorso, l’imputato lamenta la violazione dell'articolo 606, lettera b), cod. proc. pen. in relazione all'articolo 256, comma 3, d. lgs. n. 152/2006.
3.1.1. Sostiene in particolare il ricorrente che la condotta contestata al Benedetto sia una condotta meramente omissiva, laddove al contrario la norma incriminatrice sanziona una condotta di natura esclusivamente commissiva. Una condotta omissiva potrebbe essere sanzionata solo nei confronti del proprietario del terreno o di soggetto altrimenti gravato da una posizione di garanzia, nel caso di specie non sussistente;
3.1.2. In secondo luogo, osserva come nessuna condotta, nè commissiva nè omissiva, può essere addebitata alla Teknoservice srl, in quanto essa non aveva normativamente alcun diritto o obbligo sull'area della ex discarica comunale, né su di essa gravavano specifici obblighi derivanti dal contratto di appalto dei servizi di igiene urbana affidatole nel 2015 dal comune di Pisticci.
L’area su cui è stata nel tempo realizzata una discarica abusiva ricade infatti nel perimetro della ex discarica comunale chiusa nel 1998 e sottoposta a gestione post mortem dal Comune di Pisticci ai sensi del decreto legislativo 36/2003.
Il contratto di appalto del 7 ottobre 2015 stipulato tra detto comune e Teknoservice srl non aveva ad oggetto la gestione post-operativa di suddetta discarica, avendo la società esclusivamente la gestione di un centro di raccolta ad essa adiacente.
Da tale contratto non deriva neppure alcuna posizione di garanzia in capo alla società in adempimento degli obblighi puntualmente elencati nel contratto stesso.
Oggetto dell'appalto era la rimozione dei rifiuti sulle «strade ed aree pubbliche», o quantomeno «aperte al pubblico». Nella nozione di suolo pubblico possono essere ricondotti esclusivamente i beni appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile dei comuni che delle province, e non anche i beni rientranti nel patrimonio disponibile del comune quali l'area della ex discarica comunale, che non era ovviamente neppure adibita ad uso pubblico.
Nè obblighi in tal senso possono rinvenirsi nell'articolo 29 del contratto, invocato per motivare una competenza di Teknoservice sull'area della discarica abusiva, in quanto «l’onere di rimozione di eventuali rifiuti abbandonati sul suolo pubblico» va riferito alla nozione di suolo pubblico dianzi evidenziata.
3.2. Lamenta, inoltre, con il secondo motivo, la violazione dell'articolo 606 lettera e) del codice di procedura penale, per essere la Corte di appello incorsa in evidente contraddizione in relazione alla individuazione e interpretazione dei «precisi riscontri documentali» cui fa riferimento in sentenza.
Il riferimento è alla nota del Comune di Pisticci del 16 gennaio 2015, neppure indirizzata a Teknoservice, e alla nota della società del 3 marzo 2017, che non costituisce riscontro alla precedente, bensì ad una diversa nota comunale del 28 Febbraio 2017.
Da tale corrispondenza non può dunque, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici del merito, desumersi alcuna sussistenza di obblighi contrattuali per la Teknoservice con riferimento all'area esterna al centro di raccolta, così come la richiesta di ulteriori compensi per le attività di pulizia dell'area appare del tutto corretta in quanto estranea all'oggetto del contratto.
3.3. Con il terzo motivo di ricorso lamenta violazione di legge in riferimento all'articolo 1140 del codice civile in relazione all'attribuzione a Teknoservice della natura di detentore dell'area della ex discarica comunale in forza delle clausole contrattuali dell'appalto di servizi di igiene urbana dianzi evidenziato. Evidenzia, in particolare, il ricorrente come Teknoservice non aveva né la proprietà, nel possesso, né la detenzione dell'area interessata dalla predetta discarica, non rivestendo pertanto alcuna posizione di garanzia; è, dunque, errata l'affermazione secondo cui «l'area, indipendentemente da chi ne fosse il proprietario, era detenuta di fatto dalla Teknoservice».
3.4. Con il quarto motivo di ricorso propone in realtà tre distinte censure.
3.4.1. In primo luogo, la violazione di legge in riferimento all'articolo 256 d. lgs. 152/2006, in relazione alla asserita natura di rifiuto delle campane e dei cassonetti contenuti nell’area della discarica abusiva, da doversi considerare, al contrario, beni suscettibili di ulteriore utilizzo.
3.4.2. In secondo luogo, il vizio di motivazione in relazione alla presenza di una motospazzatrice di proprietà di Teknoservice all’interno del luogo della discarica abusiva, la cui presenza non è al contrario mai stata accertata.
3.4.3. In terzo luogo, contesta come apodittica l’affermazione secondo cui dalla mera vicinanza all’Ecocentro gestito da Teknoservice discenderebbe l’automatico utilizzo dell’area di discarica. Contesta, in particolare, l’affermazione dei giudici del merito secondo cui l’aver depositato le campane e i cassonetti sul posto avrebbe indotto i cittadini a ritenere che tale area potesse essere adibita a discarica a cielo aperto, essendovi la prova che già negli anni precedenti alla stipula del contratto di appalto tale pratica di abbandono fosse consueta.
3.5. Con il quinto motivo di ricorso lamenta violazione di legge in riferimento all'articolo 256 d. lgs. 152/2006, in relazione alla assenza del requisito della «definitività» dell’abbandono, circostanza che induce il ricorrente a chiedere la riqualificazione del reato contestato in quello di cui all’articolo 256, comma 2, TUA, con conseguente rimessione in termini per proporre oblazione.
3.6. Con il sesto e ultimo motivo, il ricorrente lamenta violazione di legge in riferimento all'articolo 53 della l. 689/1981, in riferimento all’articolo 135 cod. pen.. Contesta, in particolare, l’omessa applicazione da parte dei giudici del merito della conversione della pena detentiva irrogata in pena pecuniaria.
4. Il ricorso di Grieco Antonio.
4.1. Col primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell'articolo 606, lettera b), cod. proc. pen. in relazione all'articolo 452-quinquies del codice penale, in relazione alla dichiarata permanenza del reato sino alla pronuncia della sentenza di primo grado; lamenta inoltre il vizio di omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell'inquinamento ambientale alla data del 20 giugno 2014, così come contestato nel capo di imputazione.
Sostiene in particolare il ricorrente che le analisi eseguite nel 2014 non davano conto dell'esistenza di inquinamento delle acque; il reato, infatti, è stato accertato nel 2018, quando imputato già da alcuni mesi è stato collocato a riposo.
Evidenzia il Grieco che l'inquinamento da sversamento di percolato non costituisce l'effetto di un lento rilascio delle sostanze inquinanti, ma si è verificato a seguito e in occasione di episodi connessi ad eccezionali fenomeni piovosi.
4.1.1. Contesta, quindi, la asserita permanenza del reato contestato, e sostiene che, a tutto concedere, i giudici avrebbero dovuto riqualificare il fatto in quello di cui all'ultimo comma dell'articolo 452-quinquies del codice penale, ovvero in quello di cui all'articolo 256, comma 3, del testo unico ambientale, per l’omessa o cattiva gestione della discarica.
4.2. Lamenta, inoltre, la violazione dell'articolo 606, lettere b) ed e), del codice di procedura penale, per avere la Corte di appello ritenuto sussistente un inquinamento delle acque in assenza di un deterioramento significativo e misurabile delle matrici ambientali presso la dismessa discarica di Feroleto.
4.2.1. Contesta in particolare che possa costituire un ragionevole parametro di giudizio la «macroscopica evidenza» del fatto, rilevabile dall’esame obiettivo e diretto delle fotografie acquisite in atti, dalle quali certo non si può evincere la sussistenza di un inquinamento da percolato.
4.2.2. Rappresenta inoltre che occorre aderire alla tesi cosiddetta delle «tutele crescenti», in base alla quale il confine inferiore del diritto di inquinamento ambientale è costituito dalle contravvenzioni ambientali. In assenza di superamento delle cosiddette CSC non sarebbe neppure ipotizzabile reato in parola, non risultando in questo caso la compromissione o il deterioramento effettivamente significativi;
4.3. Lamenta, ancora, la violazione dell'articolo 606, lettere b) ed e), del codice di procedura penale, per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la sussistenza di una posizione di garanzia in capo al ricorrente, sulla base di una erronea lettura del sistema di ripartizione delle competenze tra organi amministrativi ed organi politici. Evidenzia in particolare come assenza di risorse economiche per far fronte alla costosa gestione post-operativa della discarica fosse ostacolo insormontabile e come la destinazione di fondi nell'apposito capitolo di spesa forse di competenza della politica.
4.4. Lamenta, di nuovo, la violazione dell'articolo 606, lettere b) ed e), del codice di procedura penale, per avere la Corte appello ritenuto la sussistenza di una condotta colposa in capo al Grieco in riferimento agli obblighi scaturenti dal decreto 27 luglio 1984, dal decreto legislativo n. 36/2003 e dal decreto legislativo n. 152/2006.
Sostiene, in particolare, che tali norme prevedono esclusivamente che il percolato nei pozzi di raccolta debba essere monitorato e controllato, nonché che debba procedersi all’emungimento solo quando il pozzo di raccolta non sia più in condizioni di contenere il percolato medesimo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Preliminarmente, la Corte sottolinea come, a pagina 10, la sentenza impugnata contenga un espresso rinvio per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ritenuto (v. Sez. 3, n. 28411 del 21/06/2012, n.m.) che la motivazione per relationem effettuata dal giudice d'appello sia generalmente legittima e consenta al giudice di fornire adeguata giustificazione delle ragioni poste a sostegno della pronuncia.
L'ambito di ammissibilità di una siffatta motivazione è stato, tuttavia, compiutamente delimitato.
Si è in primo luogo così precisato come non sia necessario, per il giudice d'appello, esaminare nuovamente le questioni genericamente formulate nei motivi di gravame e sulle quali si sia già soffermato il giudice di prime cure, con argomentazioni esatte e prive di vizi logici, quando le censure mosse alla sentenza di primo grado non contengano elementi nuovi rispetto a quelli già esaminati e disattesi (Sez. 5, n. 4415, 8 aprile 1999; Sez. 5, n. 7572, 11 giugno 1999; Sez. 6, n. 31080, 15 luglio 2004). È dunque consentito al giudice di appello uniformarsi, tanto per la ratio decidendi, quanto per gli elementi di prova, agli stessi argomenti valorizzati dal primo giudice, specie se la loro consistenza probatoria sia così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione (Sez. 5, n. 3751, 23 marzo 2000).
In tale circostanza, ciò che si richiede al giudice del gravame è, in definitiva, una valutazione critica delle argomentazioni poste a sostegno dell'appello, all'esito della quale risulti l'infondatezza dei motivi di doglianza (cfr. Sez. 4, n. 16886 del 20/01/2004).
Tali argomentazioni sono state ulteriormente ribadite, osservando che la conformità tra l'analisi e la valutazione degli elementi di prova posti a sostegno delle rispettive pronunce nelle sentenze di primo e secondo grado determina una saldatura della struttura motivazionale della sentenza di appello con quella del primo giudice tale da formare un unico, complessivo corpo argomentativo (Sez. 6, n. 6221, 16 febbraio 2006).
Sez. 3, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, non massimata sul punto, ha poi precisato che in presenza di una «doppia conforme» affermazione di responsabilità, va ritenuta l'ammissibilità della motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della decisione impugnata, sempre che le censure formulate contro la sentenza di primo grado non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nell'effettuazione del controllo della fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall'appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 1309 del 22 novembre 1993 – 4 febbraio 1994, CED Cass. n. 197250; Sez. III, sentenza n. 13926 del 1° dicembre 2011 – 12 aprile 2012, CED Cass. n. 252615)».
La c.d. «doppia conforme» si verifica in particolare (Sez. 2, n. 37295 del 12/05/2019, El Rharbi, RV. 277218) quando sono stati rispettati i seguenti parametri:
a) la sentenza di appello ripetutamente richiama la sentenza di primo grado;
b) entrambe le sentenze di merito adottano gli stessi criteri di valutazione delle prove (Sez. 3, n. 44418/2013, Argentieri, RV. 257595)».
In tal caso (Sez. 2, n. 3892 del 20/12/2022, Riccobono, non massimata), «eventuali carenze della seconda decisione in ordine alle censure contenute nell'atto d'impugnazione sono superabili mediante il richiamo agli argomenti adottati dalla prima sentenza (cfr., tra le tante, Sez. 2 - , n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, Valerio, Rv. 252615 01; Sez. 3, n. 10163 del 01/02/2002, Lombardozzi, Rv. 221116 - 01)».
Nel caso di specie si è in presenza di una doppia conforme di merito, per cui le doglianze difensive andranno confrontate con entrambe le sentenze, che andranno considerate unitariamente anche sotto il profilo dell’ammissibilità dell’impugnazione.
L'individuazione dei limiti di legittimità della motivazione per relationem trova un ulteriore punto fermo nell'obbligo del giudice d'appello di argomentare sulla fallacia, inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione in presenza di specifiche censure dell'appellante sulle soluzioni adottate dal giudice di primo grado, poiché il mero richiamo in termini apodittici o ripetitivi alla prima pronuncia o la semplice reiezione delle censure predette determina un evidente vizio di motivazione (Sez. 6, 6221/06 cit.).
2. Il ricorso di Benedetto Nicola è, complessivamente, infondato.
2.1. Il primo motivo di ricorso, in cui si contesta la possibilità di commettere il reato di discarica abusiva in forma omissiva, è infondato.
E ciò per due ordini di motivi, l’uno relativo alla condotta omissiva e alla relativa posizione di garanzia, che si tratterà nel presente paragrafo; l’altro, relativo alla sussistenza – nel caso in esame - di una precisa condotta «attiva», che sarà oggetto di valutazione nel par. 2.4.
In primo luogo, quanto alla condotta «omissiva impropria» (o commissiva mediante omissione), la giurisprudenza assolutamente prevalente è infatti concorde (v. Sez.3, n. 3430 del 4/07/2012, dep. 2013, Chianese, n.m.) nel ritenere che «ai fini della configurabilità del reato di gestione abusiva di una discarica è sufficiente la colpa, consistente in una negligente condotta omissiva, ovvero il non aver verificato le condizioni del luogo di deposito dei rifiuti (Cass. Sez. 3^ 11.3.2008 n. 18364, Giordano ed altro, Rv. 240034)».
Sez. 3, n. 12159 del 15/12/2016, Messina, Rv. 270354 – 01, ha poi precisato che «il concetto di gestione di una discarica abusiva … deve essere inteso in senso ampio, comprensivo di qualsiasi contributo, sia attivo che passivo, diretto a realizzare od anche semplicemente a tollerare e mantenere il grave stato del fatto-reato, strutturalmente permanente. Di conseguenza, devono ritenersi sanzionate non solo le condotte di iniziale trasformazione di un sito a luogo adibito a discarica, ma anche tutte quelle che contribuiscano a mantenere tali, nel corso del tempo, le condizioni del sito stesso. Sicché più soggetti possono concorrere, a titolo di dolo o colpa, nella "gestione" di una discarica abusiva, quali i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti propri, i responsabili di imprese che smaltiscono rifiuti di terzi, i trasportatori, i proprietari dell'area interessati, nonché, per quel che rileva nella specie, i pubblici amministratori (Sez. 3, n. 163 del 04/11/1994, dep. 13/01/1995, Zagni, Rv. 200961)».
Si è poi aggiunto che la gestione di una discarica abusiva può comportare il concorso di contributi attivi o passivi da parte di più soggetti, concorrenti tra loro oppure agenti in un quadro di cooperazione colposa, venendo tutti tali soggetti chiamati a rispondere per gli apporti dati alla realizzazione del reato (Sez. 3, n. 2485 del 09/10/2007, dep. 17/01/2008, Marchi, Rv. 238595).
La motivazione della Corte di appello di Potenza e del Tribunale di Matera non appare pertanto manifestamente illogica o contraddittoria, ove letta congiuntamente alla motivazione relativa al contributo causale apportato dal ricorrente, di cui al paragrafo che segue.
2.2. Il secondo motivo di ricorso, con il quale si contesta la sussistenza di qualsiasi posizione di garanzia in capo a Teknoservice (e al Benendetto nella sua qualifica di l.r.), è manifestamente infondato.
Non può infatti essere condiviso l’assunto difensivo (peraltro motivatamente disatteso dal giudice di secondo grado a pagina 16, con espresso rinvio anche alle pagine 14 e ss. della sentenza di primo grado, con cui il ricorrente non si confronta) secondo cui oggetto dell'appalto era la rimozione dei rifiuti esclusivamente sul «suolo pubblico» ricadente nel novero dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile.
Ritiene il Collegio che, al contrario, la nozione di «strade ed aree pubbliche» deve invece ritenersi estesa a qualunque area di proprietà pubblica, indipendentemente dalla natura demaniale, o patrimoniale, o della appartenenza, in seno a tale ultima categoria, al patrimonio disponibile o indisponibile, essendo al contrario sufficiente la mera disponibilità in capo all’amministrazione, da cui discende l’infondatezza della doglianza.
A cascata, del pari manifestamente infondata appare la deduzione difensiva volta a non attribuire rilievo probatorio all’articolo 29 del Capitolato di appalto, il quale, esplicitamente, impegna Teknoservice alla «rimozione di eventuali rifiuti abbandonati sul suolo pubblico».
Non è infatti dubbio che la posizione di garanzia, oltre che dalla legge, possa discendere anche dal contratto (v. Sez. 4, n. 44796 del 30/09/2015, Marzola, Rv. 265029-01, sulla posizione di garanzia che assumono il gestore e il responsabile della sicurezza di un impianto sciistico giusto contratto concluso con lo sciatore; Sez. 3, n. 30927 del 31/05/2019, Cisternino, Rv. 276551 – 01, circa la responsabilità in tema di tutela della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro, di colui che subentri, in forza di un contratto di affitto di azienda, nella gestione dei locali in cui si svolga una prestazione lavorativa; Sez. 4, n. 40259 del 23/05/2019, Pellegrini, Rv. 277619 – 01, sulla posizione di garanzia del proprietario dell’immobile dato in garanzia; Sez. 4, n. 46191 del 23/05/2019, Fabris, Rv. 277698 – 01, sulla posizione di garanzia che assume il titolare di un'autofficina in base al contratto di riparazione di un'autovettura).
Inoltre, al di là dell’obbligazione contrattuale, entrambi i giudici del merito hanno ritenuto che Teknoservice esercitasse la gestione «di fatto» dell’area su cui è stata realizzata la discarica abusiva (v. anche il successivo par. 2.4).
Sul punto, il Collegio evidenzia come Sez. 4, n.28316 del 29/09/2020, Zanon, Rv. 280080 – 01, ha precisato in proposito che «in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto», circostanza riscontrate dalle pronunce di merito con accertamento di fatto non suscettibile di rivalutazione in sede di legittimità.
Pertanto, non può censurarsi di illogicità la pronuncia impugnata, che degli anzidetti principi ha fatto buon governo nell’indicare Teknoservice quale titolare della posizione di garanzia.
2.3. Inammissibile è poi la censura relativa alla presunta erronea valutazione dei «precisi riscontri documentali».
Essa, in primo luogo, è totalmente fattuale e quindi di per sé inammissibile.
In secondo luogo, alla luce delle sovraesposte considerazioni (da cui discende una precisa «posizione di garanzia» in capo all’imputato, consistente nell’obbligo di prelevare i rifiuti ivi depositati da terzi), si risolve in una doglianza ininfluente, in quanto totalmente inidonea a «disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa dell’elemento frainteso o ignorato» (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085 – 01, secondo cui il vizio di motivazione rileva nei limiti in cui «possa scardinare la logica del provvedimento, creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali»).
Il motivo di ricorso non supera, pertanto, il processo di «eliminazione mentale» della prova censurata, essendo il giudizio di colpevolezza fondato sul complesso delle altre risultanze probatorie, come concordemente affermato in entrambi i gradi del giudizio di merito.
L'applicazione del suddetto principio comporta l'inammissibilità del motivo di ricorso, posto che la prova di cui il ricorrente lamenta il travisamento non ha avuto incidenza determinante nel giudizio di colpevolezza.
2.4. Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente evidenzia come Teknoservice non avesse né il possesso né la disponibilità dell’area su cui è stata realizzata la discarica abusiva, contestando l'affermazione secondo cui «l'area, indipendentemente da chi ne fosse il proprietario, era detenuta di fatto dalla Teknoservice».
Il motivo è manifestamente infondato.
La circostanza, incontrovertibile, che sull’area proprio Teknoservice avesse ivi depositato le campane e i cassonetti in disuso (su cui v. infra) e che avesse intrattenuto rapporti epistolari con il Comune, proprio relativi alla pulizia dell’area, viene indicata a pagina 16 della sentenza impugnata.
La sentenza di primo grado, sul punto, evidenzia poi (pag. 15) come «la ditta appaltatrice avrebbe dovuto rendersi diligente, facendo quanto concretamente possibile. La Teknoservice, e per essa il suo responsabile Nicola Benedetto, ha, inoltre, aggravato la situazione depositando proprio in quell'area le campane in disuso per la raccolta differenziata del vetro e della plastica, dei cassonetti per la raccolta di rifiuti solidi urbani, un cassone per autocarro con pianale scorrevole contenente cassette di polistirolo del tipo utilizzato in agricoltura. Su quell'area c’era, secondo la sentenza, anche una moto-spazzatrice di proprietà della Teknoservice. L’accumulo di quei rifiuti da parte di cittadini terzi era avvenuto in un'area già detenuta dalla Teknoservice, recintata e originariamente dotata di cancello».
L’evidenza della condotta di smaltimento (sul punto v., più diffusamente infra, par. 2.8) da parte della società rappresentata dall’imputato rende il contributo causale posto in essere da Teknoservice nella realizzazione della discarica, unitamente agli altri responsabili della derelizione dei rifiuti, del tutto chiara.
Nel caso di specie si versa infatti, in tutta evidenza, in un caso di «causazione complessa», da risolvere secondo il canone costituito dall’articolo 41, secondo comma, del codice penale, relativo al concorso di cause indipendenti che hanno contribuito a cagionare l’evento.
2.5. Con il quarto motivo il ricorrente, in primo luogo, contesta la natura di rifiuto delle campane e dei cassonetti contenuti nell’area della discarica abusiva.
Il motivo è infondato.
L’articolo 183 del d. lgs. n. 152/2006 definisce come rifiuti «le sostanze o gli oggetti che derivano da attività umane o da cicli naturali, di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi».
Come è stato sottolineato in dottrina, si tratta di una definizione che non si caratterizza per la individuazione di elementi intrinseci di determinati oggetti o sostanze che, se presenti, ne determinano l’attribuzione della qualificazione di rifiuto, quanto, piuttosto, di una definizione di tipo «funzionale», essendo rifiuto tutto ciò di cui il detentore si sia disfatto ovvero intenda disfarsi o sia obbligato a farlo.
In termini generali, la Corte evidenzia come la corte di Giustizia dell’Unione europea abbia più volte sottolineato (Sez. 2^, 14 ottobre 2020, sentenza resa nella causa n. C‑629/19) come l’espressione «disfarsi» vada interpretata alla luce dell’obiettivo della direttiva 2008/98 che, ai sensi del suo considerando 6, consiste nel «ridurre al minimo le conseguenze negative della produzione e della gestione dei rifiuti per la salute umana e l’ambiente», nonché dell’articolo 191, paragrafo 2, TFUE, a tenore del quale la politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela ed «è fondata, in particolare, sui principi della precauzione e dell’azione preventiva». Ne consegue, secondo la Corte, che «il termine “disfarsi” e dunque la nozione di “rifiuto”, ai sensi dell’articolo 3, punto 1, della Direttiva 2008/98, non possono essere interpretati in modo restrittivo. Sicché, dalle disposizioni di detta Direttiva risulta inoltre che il termine «disfarsi» comprende, al contempo, il “recupero” e lo “smaltimento” di una sostanza o di un oggetto ai sensi dell’articolo 3, punti 15 e 19, di tale Direttiva. Più in particolare, l’esistenza di un “rifiuto” ai sensi della direttiva 2008/98 va accertata alla luce del complesso delle circostanze, tenendo conto dell’obiettivo di tale direttiva e in modo da non pregiudicarne l’efficacia».
Per la corte di Giustizia UE, pertanto, la nozione di rifiuto («waste») va intesa in modo ampio e non restrittivo, sì da non pregiudicare gli obiettivi di riduzione dei rifiuti e del loro impatto sulla salute e sull’ambiente.
In secondo luogo, la locuzione «abbia deciso di disfarsi» induce a chiedersi se debba ritenersi prevalente l’aspetto volontaristico, prima assente nella lettera della norma, ovvero quello della oggettiva destinazione del rifiuto. La giurisprudenza della Corte sul punto è chiaramente orientata a privilegiare una nozione «oggettiva» del termine rifiuto a scapito di quella «soggettiva», avendo affermato (Sez. 3, n. 48316 del 11/10/2016, Lombardo, n.m.) che «debba ritenersi inaccettabile ogni valutazione soggettiva della natura dei materiali da classificare o meno quali rifiuti, poiché è rifiuto non ciò che non è più di nessuna utilità per il detentore in base ad una sua personale scelta ma, piuttosto, ciò che è qualificabile come tale sulla scorta di dati obiettivi che definiscano la condotta del detentore o un obbligo al quale lo stesso è comunque tenuto, quello, appunto, di disfarsi del suddetto materiale». Gli elementi da cui desumere l’oggettiva attività di «disfarsi» possono essere costituiti, ad esempio, dalla quantità, dalle condizioni e delle modalità di custodia dei beni (Sez. 3, n. n. 11603 del 26/01/2022, Pietrobon, n.m.)
Anche Sez. 3, n. 3299 del 19/07/2017, dep. 2018, Masi, n.m., ha ribadito che «la qualifica di rifiuto (art. 183 del D.L.vo 152/2006) deve essere dedotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che decide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l’oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l’originario produttore se ne era disfatto. Non rileva, poi, il fatto che un bene sia ancora cedibile a titolo oneroso, poiché tale evenienza non esclude comunque la natura di rifiuto».
Recentemente, questa Corte ha ribadito (Sez. 3, n. 24680 del 17 mag 2023, Francioso) che «la qualifica di rifiuto deve essere edotta da dati obiettivi, non dalla scelta personale del detentore che decide che quel bene non gli è più di nessuna utilità. Sono elementi obiettivi, ad esempio, l’oggettività dei materiali in questione, la loro eterogeneità, non rispondente a ragionevoli criteri merceologici, e le condizioni in cui gli stessi sono detenuti, così come le circostanze e le modalità con le quali l’originario produttore se ne era disfatto».
Del pari, è irrilevante l’eventuale utilità sostenuta dal produttore per sostenere la qualifica di «non rifiuto».
Sul punto, Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, n.m., ha affermato che «in tema di rifiuti, la definizione dell’art. 183, comma 1, lett. a), D.lgs. n. 152 del 2006, a termini della quale costituisce rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione ovvero l’obbligo di disfarsi, esige - in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale impone di interpretare l’azione di disfarsi alla luce della finalità della normativa europea, volta ad assicurare un elevato livello di tutela della salute umana e dell’ambiente secondo i principi di precauzione e prevenzione - che la qualificazione alla stregua di rifiuti dei materiali di cui l’agente si disfa consegua a dati obiettivi connaturanti la condotta tipica, anche in rapporto a specifici obblighi di eliminazione, con conseguente esclusione della rilevanza di valutazioni soggettivamente incentrate sulla mancanza di utilità, per il medesimo, dei predetti materiali (Sez. 3, n. 19206 del 16/03/2017, Costantino, Rv. 269912)».
Al fine di valutare se ci si trova di fronte ad un rifiuto o meno occorre quindi privilegiare dati oggettivi, quali la condotta e l’effettivo regime cui sono sottoposti.
Nel caso di specie, a pag. 15 della sentenza di primo grado viene chiarito che i cassonetti e le campane furono «eliminati su strada» nel 2015, per essere portati nel luogo ove si stava realizzando, con plurimi e costanti abbandoni, la discarica abusiva.
Alla luce delle modalità dell’abbandono (in un’area pubblica interessata all’abbandono reiterato di rifiuti) e del tempo trascorso (non meno di tre anni), ritiene la Corte che correttamente i giudici del merito abbiano attribuito a tali oggetti la qualifica di rifiuti.
Né a conclusioni diverse può condurre la nota del Comune di Pisticci del 6/07/2021, citata in nota 4, a pagina 26 del ricorso, secondo cui «non è da escludere a priori» un possibile riutilizzo dei contenitori, essendo in tutta evidenza da un lato sprovvista di alcuna certezza sul riutilizzo, dall’altro paventando altresì la possibilità che gli stessi vengano «smaltiti» altrove.
2.6. Quanto alla moto-spazzatrice, la censura è inammissibile.
Sul punto, la Corte non può che ribadire quanto già affermato al par. 2.3.: la doglianza da un lato appare meramente fattuale, e, dall’altro, l’eventuale fondatezza, e la conseguente eliminazione mentale della prova asseritamente travisata, non sarebbe tale da disarticolare il tessuto argomentativo della decisione di primo e secondo grado, essendo detto mezzo solo uno dei tanti rifiuti ivi abbandonati.
Il ricorso, inoltre, non si confronta con la sentenza di primo grado, che a pagina 4 induce la presenza della moto-spazzatrice non già da prove documentali, bensì dalla deposizione del teste Angelo Colacicco, Comandante della Stazione Carabinieri Forestali di Scanzano Jonico, laddove ha riferito dei contenuti del sopralluogo effettuato in situ in data 12/06/2018, risultando pertanto inammissibile anche per genericità.
2.7. L’ulteriore profilo di censura, che contesta l’argomentazione secondo cui l’aver depositato le campane e i cassonetti sul posto avrebbe indotto i cittadini a ritenere che tale area potesse essere adibita a discarica a cielo aperto, poiché già negli anni precedenti alla stipula del contratto di appalto tale pratica di abbandono fosse consueta, è manifestamente infondato in quanto travalica i limiti entro cui il vizio di motivazione può essere dedotto in sede di legittimità.
In tema di sindacato del vizio della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., si deve rammentare che, nell’apprezzamento delle fonti di prova, il compito del giudice di legittimità non è di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma solo di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così Sez. un., n. 930 del 13/12/1995, Rv 203428; per una compiuta e completa enucleazione della deducibilità del vizio di motivazione cfr. Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217 e, da ultimo, Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 27606201; Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, Rv. 265482).
Dall’affermazione di questo principio, ormai costante nel panorama giurisprudenziale, discende che esula dai poteri della Cassazione, nell’ambito del controllo della motivazione del provvedimento impugnato, la formulazione di una nuova e diversa valutazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, giacché tale attività è riservata esclusivamente al giudice di merito, potendo riguardare il giudizio di legittimità solo la verifica dell'"iter" argomentativo di tale giudice, accertando se quest'ultimo abbia o meno dato conto adeguatamente delle ragioni che lo hanno condotto ad emettere la decisione (da ultimo Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, Furlan, Rv. 27606201e Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217);
Passando al più specifico tema del «vizio di manifesta illogicità» della motivazione, va osservato che il relativo controllo viene esercitato esclusivamente sul fronte della coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità, per il giudice di legittimità, di verificare se i risultati dell'interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo; sicché nella verifica della fondatezza, o meno, del motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., il compito della Corte di Cassazione non consiste nell'accertare la plausibilità e l'intrinseca adeguatezza dei risultati dell'interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma quello, ben diverso, di stabilire se i giudici di merito: a) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; b) abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti; c) nell'interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre.
Ne consegue che, ai fini della denuncia del vizio di motivazione, è indispensabile dimostrare che il testo del provvedimento sia manifestamente carente di motivazione e/o di logica, per cui non può essere ritenuto legittimo l’opporre alla valutazione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato una diversa ricostruzione degli stessi, magari altrettanto logica, dato che in quest'ultima ipotesi verrebbe inevitabilmente invasa l'area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito.
Il controllo di legittimità operato dalla Corte di Cassazione, infatti, non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Sez. 4, n. 4842 del 2/12/2003, Elia, Rv 229368).
Va da ultimo ancora osservato che la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto. Al contrario, è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n. 46566 del 21/2/2017, M., Rv 271227; Sez. 2, 9242 del 8/2/2013, Reggio, Rv 254988).
Il motivo, che si milita a sostenere una «lettura alternativa» rispetto a quella dei giudici di merito, è pertanto inammissibile.
2.8. Il quinto motivo, con cui contesta l’assenza del requisito della «definitività» dell’abbandono ai fini dell’integrazione del reato contestato, è manifestamente infondato.
La giurisprudenza della Corte ha nel tempo enucleato i criteri distintivi tra il reato di discarica abusiva e di abbandono incontrollato di rifiuti.
Un primo criterio differenziale è costituito dalla «occasionalità» dell’abbandono, contrapposta alla «abitualità» della discarica abusiva (Sez. 3, Sentenza n. 18399 del 16/03/2017, Rv. 269914 – 01).
Un secondo carattere distintivo, ma solo «in positivo» (nel senso che la sua presenza consente di inferire l’esistenza di una discarica, mentre la sua assenza non la esclude), è costituito dalla esistenza di una struttura organizzativa nella gestione dei rifiuti (Sez. 3, n. 28785 del 16/05/2018, Novelli). Sul punto, Sez. 3 - , n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, Rv. 276009 – 01, ha affermato che in tema di deposito incontrollato di rifiuti, ove esso si realizzi con plurime condotte di accumulo, in assenza di attività di gestione, la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata si fonda principalmente sulle dimensioni dell'area occupata e sulla quantità dei rifiuti depositati.
Un terzo elemento è la «quantità» dei rifiuti depositati, cui va aggiunto lo «spazio» occupato dai rifiuti (Sez. 3, n. 47501 del 13/11/2013 , Caminetto, Rv. 257996).
Altro elemento degno di considerazione è la natura «eterogenea» dei rifiuti (n° 28706 del 09.06.2017, Caruso, n.m.)
Del tutto irrilevamente è, al contrario, il «tempo» di permanenza del materiale sversato sull’area in questione (Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, Cotto, Rv. 269914).
Il tendenziale carattere di «definitività» dell’abbandono costituisce quindi non un requisito a sé, ma un «dato di sintesi» dei predetti «indici di discarica», da valutarsi in concreto tenendo conto delle quantità dei rifiuti, dello spazio occupato, della natura organizzata dell’attività e della continuità della condotta.
La valutazione effettuata dai giudici di merito (v. pag. 17 sentenza impugnata: «l'esistenza di un mero deposito occasionale di rifiuti … non è condivisibile, considerata per un verso, la mera assertività del rilievo difensivo e, per altro verso, per la stessa contraddittorietà con le evidenze fotografiche acquisiti in atti, le quali portano, invece, a ritenere che i rifiuti siano stati abbandonati definitivamente e accumulati gli uni sugli altri negli anni senza preventiva rimozione di quelli precedenti, sicché i primi sembrano solamente ricoperti da quelli abbandonati più di recente»), eminentemente di fatto, oltre a non essere suscettibile di sindacato in sede di legittimità, appare conformarsi alle pronunce di questa Corte e non sembra in ogni caso possibile ravvisare, così come lamentato dalla difesa, un mero abbandono incontrollato di rifiuti.
Trova pertanto applicazione nel caso in esame la giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi non specifici, ossia generici ed indeterminati, che ripropongono le stesse ragioni già esaminate e ritenute infondate dal giudice del gravame o che risultano carenti della necessaria correlazione tra le argomentazioni riportate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione (v., tra le tante: Sez. 4, n. 18826 del 09/02/2012 - dep. 16/05/2012, Pezzo, Rv. 253849).
2.9. L’ultimo motivo di ricorso è inammissibile.
Come noto, nell’esercitare il potere discrezionale di sostituire le pene detentive brevi con le pene pecuniarie corrispondenti, il giudice deve tenere conto dei criteri indicati nell’articolo 133 cod. pen. (Sez. U, n. 24476 del 22/04/2010 – dep. 30/06/2010, Gagliardi, Rv. 247274).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata chiarisce (pag. 17) che «la sostituzione della pena prevista alla citata legge numero 689/1981 costituisce una mera possibilità prevista in favore dell'imputato, all'esito, tuttavia, di una valutazione dei criteri indicati dall'articolo 133 c.p.; ebbene, nel caso di specie, la Corte, proprio sulla base delle caratteristiche peculiari della condotta di reato e tenendo conto dell'estensione dell'area interessata dall'accumulo di rifiuti e del danno in effetti cagionato ritiene che l'invocazione difensiva debba essere respinta».
Il ricorso non si confronta affatto con la sentenza impugnata, limitandosi a reiterare una doglianza motivatamente respinta dalla corte di appello, rendendosi così inammissibile per genericità.
2.10. La difesa, nel corso della discussione, ha insistito per la declaratoria prescrizione del reato contestato.
Sul punto, il Collegio richiama la giurisprudenza della Corte (Sez. 3, n. 39781 del 13/04/2016, Pajardi) secondo cui «ai fini dell'integrazione del reato di gestione di discarica non autorizzata, rientrano nella nozione di gestione anche la fase post-operativa, successiva alla chiusura, e di ripristino ambientale. La conseguenza, in tema di individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, è che la permanenza del reato previsto per la gestione abusiva o irregolare della fase post-operativa di una discarica, cessa o con il venir meno della situazione di antigiuridicità per rilascio dell'autorizzazione amministrativa, la rimozione dei rifiuti o la bonifica dell'area o con il sequestro che sottrae al gestore la disponibilità dell'area, o, infine, con la pronuncia della sentenza di primo grado».
Nel caso di specie, in assenza di sequestro, il termine di prescrizione è iniziato a decorrere con la sentenza di primo grado.
Il rilievo è pertanto infondato.
3. Il ricorso di Grieco Antonio è fondato nei termini che seguono.
3.1. Il Collegio, per ragioni di coerenza sistematica, analizzerà per primo il secondo motivo di ricorso, nella parte relativa alla lamentata insussistenza di un evento di inquinamento.
Il motivo è parzialmente fondato.
3.1.1. Preliminarmente, il Collegio evidenzia come la giurisprudenza della Corte abbia, nel corso degli anni trascorsi dalla entrata in vigore della l. n. 68/1015, enucleato una serie di principi concernenti il delitto di inquinamento ambientale.
Esso è un reato di danno, causalmente orientato (Sez. 3, n. 15865 del 31 gennaio 2017, Rizzo, Rv. 269489), a condotta libera.
L’evento del reato è duplice. Esso è costituito dalla «compromissione» o «deterioramento» delle matrici ambientali (acqua, aria, suolo, sottosuolo), di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna. Secondo la costante giurisprudenza della Corte (Cass. Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017, Rizzo, Rv. 269489; nello stesso senso, cfr., in motivazione, Cass. Sez. 3, n. 46170 del 21/09/2016, Simonelli, Rv. 268059 - 01; Sez. 1, n. 35636 del 14/11/2018, dep. 2019, Rical s.r.l., cit.), la «compromissione» si sostanzia in uno squilibrio che attiene alla relazione del bene aggredito (nella specie, le acque sotterranee) con l'uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare (c.d. «squilibrio funzionale», incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema), mentre il «deterioramento» consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l'uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole (c.d. «squilibrio strutturale», caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi).
Lo squilibrio, funzionale o strutturale che sia, per essere penalmente rilevante, deve essere «significativo» e «misurabile», laddove il primo termine attiene ad un dato più squisitamente «qualitativo», mentre il secondo ad un dato più marcatamente «quantitativo» (v. la citata sentenza Simonelli, che a sua volta richiama Sez. 3, n. 18934 del 15/03/2017, Catapano, n.m.).
L’assenza di espliciti riferimenti a limiti previsti da specifiche disposizioni o a particolari metodiche di analisi consente di escludere l’esistenza di un vincolo assoluto per l’interprete correlato a parametri imposti dalla disciplina di settore. Sicché, per la sussistenza del reato previsto dall’art. 452-bis cod. pen. non si deve necessariamente accertare che ci si trovi di fronte ad un sito contaminato secondo la definizione di cui all’art. 240, lett. e), D.lgs. 152 del 2006, nè l’interprete deve fare riferimento, quale parametro per la «significatività» del danno, alle CSC o CSR (Sez. 3, n. 392 del 09/10/2020, Minervini, n.m.). Tali parametri, tuttavia, rappresentano comunque un utile riferimento nel caso in cui possono fornire, considerando lo scostamento tra gli standard prefissati e la sua ripetitività, un elemento concreto di giudizio circa il fatto che la compromissione o il deterioramento causati siano effettivamente significativi (Sez.3, n. 50018 del 19/09/2018, Izzo, cit.).
In altre parole, non conta solamente «se» siano state superate le CSC (che sono parametri astratti fissati dal legislatore come «red flags» di una probabile contaminazione) o le CSR (che sono parametri sito-specifici), ma occorre anche valutare «di quanto» sono state superate, con riferimento a «quanti» parametri e «per quanto tempo».
Quanto alla consumazione del reato, la Corte ritiene che le condotte poste in essere successivamente all'iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono un post factum non punibile, ma integrano invece singoli atti di un'unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili, o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo reato di disastro ambientale di cui all'art. 452-quater cod. pen. (Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017 - dep. 30/03/2017, Rizzo, Rv. 269490).
3.1.2. Ai sensi dell’art. 452-quinquies cod. pen., «se taluno dei fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater è commesso per colpa, le pene previste dai medesimi articoli sono diminuite da un terzo a due terzi».
Quando il reato è commesso in forma omissiva («reato omissivo improprio»), è necessario che il soggetto chiamato a risponderne sia titolare di una «posizione di garanzia» individuata dalla legge o dal regolamento, o dal contratto, o da provvedimenti amministrativi. Essa deve essere individuata accertando in concreto la effettiva titolarità del potere - dovere di protezione dello specifico bene giuridico che necessita di protezione, e di gestione della specifica fonte di pericolo di lesione di tale bene, alla luce delle specifiche circostanze in cui si è verificato il sinistro (Sez. 4, n. 13843 del 12/12/2019, Cogilati, Rv. 279136 – 01; Sez. 4, n. 38624 del 19/06/2019, B., Rv. 277190; Sez. 4, n. 37224 del 05/06/2019, Piccioni, Rv. 277629).
Pertanto, il pubblico funzionario gravato da una posizione di garanzia potrà rispondere, a titolo di colpa per omissione (in caso di dolo risponderà secondo le ordinarie regole sul concorso di persone), dei delitti di inquinamento o disastro ambientale.
Nel caso in cui le regole cautelari siano individuate in leggi, regolamenti, ordini e discipline (come nel caso in esame, v. par. che segue), la colpa richiesta all’agente modello sarà, ovviamente, una «colpa specifica». Nei casi di colpa specifica lo spazio valutativo della prevedibilità è «pressoché nullo nell'ambito delle norme rigide la cui inosservanza da luogo quasi automaticamente alla colpa» e solo «nell'ambito di norme elastiche che indicano un comportamento determinabile in base a circostanze contingenti, vi è spazio per il cauto apprezzamento in ordine alla concreta prevedibilità ed evitabilità dell'esito antigiuridico da parte dell'agente modello» (Sez. Un. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261106).
Aspetto diverso è quello della «evitabilità» dell’evento, che si verifica (Sez. 4, n. 34375 del 30/05/2017, Fumarulo, Rv. 270823 – 01) «quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno».
3.1.3. Le norme che disciplinano la gestione del percolato all’interno di una discarica concorrono sicuramente, da un lato (in quanto norme primarie), a valutare la condotta in termini di abusività e, dall’altro, a circoscrive l’ambito della norma precauzionale da rispettare.
Numerose norme contenute nell’articolato del d. lgs. 36/2003 (art. 8, comma 1, lettera e) ed i), articolo 11, articolo 13, comma 1, nonché degli allegati al decreto (punti 1.2.1., 1.3, 2.2 dell’allegato 1) evidenziano infatti come, sia nella fase di gestione operativa che di gestione post mortem della discarica, gravi sul gestore, pubblico o privato che sia, un preciso obbligo di:
1) Ridurre al minimo il battente del percolato;
2) Prelevare il percolato, trattarlo e smaltirlo;
3) Ridurre il più possibile la produzione di percolato da precipitazioni meteoriche;
4) Porre in essere tutte le azioni possibili al fine di evitare la tracimazione, il ruscellamento o comunque il rilascio di percolato al di fuori del perimetro della discarica.
Tutte queste attività rientrano nella posizione di garanzia che la legge pone in capo a chi, a diverso titolo, realizza o gestisce la discarica, la cui violazione integra, senza dubbio, gli estremi della «colpa specifica», in cui la valutazione sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento assume natura semplificata.
3.2. Scendendo al profilo di ricorso, il Collegio evidenzia come le due sentenze abbiano chiarito che, dalla tracimazione della vasca di raccolta del percolato e dal cedimento degli argini, evento questo da porre in relazione allo stato di abbandono in cui era stata lasciata la discarica e non ad un imprevedibile evento naturale, sarebbe derivata la contaminazione delle acque superficiali con numerose sostanze chimiche.
A pagina 6 della sentenza di primo grado si legge infatti che «i risultati delle analisi effettuate sul campione di acqua superficiale prelevato nel fosso naturale a valle della discarica rilevano una presenza consistente di ferro, presenza di boro, cadmio, nichel e zinco, oltre ad un valore di azoto ammoniacale pari a 21.40 mg/l. Inoltre, il saggio tossicità con daphnia magna è risultato pari al 100% di immobilità. Questi valori, considerato il luogo di campionamento, sono compatibili con i corrispondenti valori riscontrati nel percolato di discarica diluito con acque meteoriche».
Tale locuzione lascia intendere la presenza di una contaminazione significativa del corpo idrico superficiale, e, tuttavia, se appare indubbia la «misurabilità» del dato, altrettanto non può dirsi in ordine alla «significatività» dello stesso (non sono indicati neppure gli scostamenti rispetto ai valori soglia delle CSC), né agli effetti della condotta in termini di «compromissione» o «deterioramento» della matrice ambientale, ossia dell’evento del reato.
La sentenza va pertanto annullata con rinvio, sul punto, per nuovo esame.
La Corte di appello di Salerno dovrà quindi valutare, anche rinnovando, se del caso, l’istruttoria, se la contaminazione riscontrata abbia determinato una compromissione o un deterioramento significativo del corpo idrico superficiale, nonché accertare, ove possibile, l’epoca di cedimento dell’argine della discarica al fine di valutare l’epoca del commesso reato in relazione alla posizione del Grieco.
4. Anche il primo motivo di ricorso (par. 4.1. delle premesse in fatto) è parzialmente fondato.
Il delitto, normalmente, ha natura di reato «istantaneo ad effetti permanenti», quando l’evento è correlato a condotte unisussistenti; esso, tuttavia, può anche configurarsi come reato «abituale» (nel caso in cui il rilascio di sostanze inquinanti nella matrice ambientale sia, ad esempio, correlato ad uno sversamento «discontinuo»), o addirittura «permanente» (quando ad esempio, il rilascio di sostanze inquinanti nella matrice ambientale sia correlato ad uno sversamento «continuo»), con le conseguenze che ne derivano in tema di prescrizione del reato.
A pagina 9 della sentenza di primo grado si legge che l'inquinamento delle matrici ambientali era «provocato dalla irregolare gestione del percolato di discarica causato dall'avere omesso:
• l’emungimento del percolato dalla vasca di accumulo posta a margine della discarica;
• l'adozione di accorgimenti in relazione al cedimento dell'argine della discarica con riversamento del percolato nelle acque del vicino fosso naturale;
• l'avvio delle procedure finalizzate alla bonifica del sito dopo le criticità ambientali riscontrate dall’ARPAB di Matera in data 20/06/2014.
L’esame effettuato dall’ARPAB aveva evidenziato che:
• quel liquido accumulatosi a margine della discarica era compatibile (in quanto diluito dalle acque meteoriche) con percolato di discarica;
• il percolato era presente anche nelle acque del canale a valle della discarica, che quindi ne risultavano inquinate».
Analogamente, a pagina 12 della sentenza di appello si legge che Grieco e Giannace «erano perfettamente a conoscenza che le condizioni in cui si trovava la discarica dismessa sita in località Feroleto di Pisticci rendevano necessario effettuare periodici interventi di emungimento delle vasche (come peraltro attestato già nel verbale di sopralluogo del 20/06/2014), dato che, specie in presenza di abbondanti precipitazioni meteoriche, si verificava la fuoriuscita dal colmo del bacino di raccolta di percolato, il quale, poi ruscellava nella parte sottostante; sicché era necessario una sistematica attività di controllo e gestione nel tempo del sito; ed invece, al momento del sopralluogo del 13/06/2018, per la condizione di abbandono in cui fu rinvenuta la discarica, risultò addirittura difficile per la polizia giudiziaria raggiungere ed individuare, per la presenza di fitta vegetazione, la vasca di raccolta dei reflui».
Dalle considerazioni svolte al par. 4, emerge come effettivamente sussistesse, anche nella fase di gestione post-operativa della discarica, un preciso obbligo prevenire le fonti di pericolo costituito dalla eccessiva produzione di percolato, e dal suo successivo sversamento nei corpi idrici superficiali.
L’evento di inquinamento è, in questi casi, frutto di una pregressa e reiterata inottemperanza agli obblighi imposti dal decreto legislativo 36/2003, segno evidente di prolungata inerzia e incuria (la sentenza di primo grado, a pag. 12, precisa che Grieco e Giannace «avevano il dovere di programmare ed eseguire le operazioni post chiusura, attingendo alle casse comunali o facendo effettuare i lavori in economia. E’ palese, quindi, il comportamento negligente adottato dal dirigente e dal responsabile del procedimento»), icasticamente rappresentate dallo smarrimento dell’intera documentazione afferente la fase post-mortem della discarica (v. pag. 7 sentenza di primo grado).
Non vi è dubbio, inoltre, che tra i pericoli che il decreto n. 36/2003 intende prevenire c’è proprio la tracimazione del percolato per effetto di intensi fenomeni pluviali (pagina 10 sentenza di primo grado: «è stato accertato che la scorretta gestione dei liquami, tale da far superare agli stessi livello dell'impermeabilizzazione, ha comportato l'inquinamento dell'ambiente che ha interessato le acque superficiali del canale naturale a valle della discarica a causa del ruscellamento del percolato»).
La sentenza di primo grado, sul punto, a pagina 10 correttamente precisa che «era concretamente prevedibile che il percolato continuasse ad essere prodotto dalla discarica e che occorresse, per evitare tracimazioni del percolato, prevedere con cadenze periodiche agli emungimenti dalla vasca di raccolta» (l’unico dei quali fu eseguito nel 2014).
Tuttavia, il Collegio evidenzia come il primo evento meteorico che ha determinato la tracimazione dalla vasca di raccolta (2014) è precedente alla legge n. 68/2015, che ha introdotto nell’ordinamento il delitto in parola (e quindi non può essere addebitato al Grieco in base al principio «nullum crimen sine lege»), mentre il secondo, in cui gli accertamenti hanno evidenziato la presenza di inquinanti nelle acque superficiali, è successivo al collocamento a riposo del ricorrente.
La sentenza precisa che il rilascio di percolato sarebbe stato determinato «anche» dal cedimento dell’argine della discarica, elemento che trasformerebbe il reato da istantaneo (come deduce il ricorrente nel ricorso) a permanente (come sostiene la sentenza).
La sentenza impugnata omette, tuttavia, di precisare se tale fenomeno sia avvenuto in costanza di rapporto di impiego del Grieco, ciò che consentirebbe di imputare allo stesso l’evento a titolo di colpa (posto che tra gli obblighi previsti dal decreto n. 36/2003 vi è quello di garantire l’«impermeabilizzazione del fondo e delle sponde della discarica»), ovvero in epoca successiva e comunque per cause non addebitabili al Grieco (non potendo l’imputato rispondere del fatto altrui), così incorrendo in un evidente vizio di motivazione.
La sentenza va pertanto annullata, con rinvio per nuovo esame sul punto.
6. I restanti motivi di ricorso restano assorbiti dall’accoglimento dei motivi dianzi esposti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Grieco Antonio con rinvio per nuovo giudizio alla Corte di appello di Salerno.
Rigetta il ricorso di Benedetto Nicola, che condanna al pagamento delle spese processuali.