Danno ambientale.Principi generali e responsabilità

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Danno ambientale.Principi generali e responsabilità

Studio Volpicelli
Pubblicato da Lexambiente in Ambiente · Martedì 25 Giu 2024
Danno ambientale.Principi generali e responsabilità

Consiglio di Stato Sez. VI n. 4298 del 14 maggio 2024


Il principio generale di diritto europeo che regola la materia della responsabilità per danno ambientale è quello “chi inquina paga”, espresso dal primo considerando della direttiva n. 2008/98/CE. Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, e segnatamente: a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento; b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela dell’ambiente. La tutela dell’ambiente ruota intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto). La responsabilità in questione è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente; c) la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo

Pubblicato il 14/05/2024

N. 04298/2024REG.PROV.COLL.

N. 07409/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7409 del 2020, proposto da
Laguna Azzurra S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Raffaele Izzo, Alessandro Vinci Orlando e Linda Cilia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Raffaele Izzo in Roma, via Boezio n.2;

contro

Ministero dello Sviluppo Economico, Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Istituto Superiore di Sanità, Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Regione Toscana, Sindaco del Comune di Orbetello nella Qualità di Commissario Delegato al Risanamento Ambientale Laguna di Orbetello, Comune di Orbetello, Arpat Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Toscana, Azienda Usl Toscana Sud Est (Ex Azienda Usl 9 di Grosseto), Enea - Agenzia Nazionale per Le Nuove Tecnologie L'Energia e Lo Sviluppo Economico Sostenibile, Provincia di Grosseto, Commissario Delegato al Risanamento Ambientale della Laguna di Orbetello, non costituiti in giudizio;
Inail - Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Andreina Amato, Vito Zammataro e Renata Tomba, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

Roberto Valori, in qualità liquidatore della Si.To.Co - Società Interconsorziale Toscana Concimi S.r.l. in Liquidazione, rappresentato e difeso dall'avvocato Daniele Granara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso Vittorio Emanuele II 154/3de;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda-Bis) n. 1426/2020, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico, del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, dell’Istituto Superiore di Sanità, di Ispra - Istituto Superiore per la Protezione e Ricerca Ambientale, di Inail - Istituto Nazionale per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro e di Roberto Valori;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2024 il Cons. Thomas Mathà e uditi per le parti l’avvocato Raffaele Izzo, l’Avvocato dello Stato Luigi Simeoli e l’avvocato Daniele Granara;

Viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La Laguna Azzurra S.r.l. adiva il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio per ottenere l’annullamento del decreto dell’11.8.2008 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, n. 4877, che approvava il verbale della conferenza di servizi decisoria del 25.6.2008 recante prescrizioni per interventi di messa in sicurezza del sito di interesse nazionale di Orbetello - area “ex Sitoco”, e, con ricorso con motivi aggiunti, della nota ministeriale del 30.1.2009 riguardante la diffida a provvedere.

2. Il decreto aveva intimato alla società, nella qualità di proprietaria di un grande complesso industriale presso il sito inquinato di interesse nazionale “Orbetello area ex SITOCO” e soggetto ad interventi di bonifica, “1. La realizzazione degli interventi di messa in sicurezza delle acque di falda mediante marginamento fisico immorsato fino alla base dello strato impermeabile sottostante la falda profonda contaminata, da estendersi sul lato terra di proprietà, a partire dall’argine del Canale Navigabile prospiciente l’area industriale ex Sitoco fino all’area dello Stagnino, tale da intercettare tutti gli apporti inquinanti derivanti dalla medesima falda contaminata e dal ruscellamento delle acque superficiali provenienti dall’area di proprietà della Società Laguna Azzurra S.r.l.; 2. la rimozione e lo smaltimento, ai sensi della vigente normativa in materia, dei rifiuti che erano presenti in precedenza sul piazzale oggetto dell’intervento di impermeabilizzazione, che durante i sopralluoghi del 6.06.2007 e del 24.10.2007 risultavano abbancati nell’area libera compresa fra le due ali degli edifici nonché di quelli presenti all’interno degli edifici medesimi; 3. la realizzazione delle opere di protezione provvisoria intorno al “Bacino 1”, di proprietà della Società Laguna Azzurra S.r.l., dotate di caratteristiche idonee a trattenere gli inquinanti nel corso degli interventi di messa in sicurezza, nonché la successiva rimozione dei rifiuti medesimi”.

3. Successivamente, con nota del 30.1.2009 prot. 2033 il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare diffidava la Società ad adempiere entro 10 giorni: “1) alla realizzazione degli interventi di messa in sicurezza delle acque di falda; 2) alla realizzazione delle opere di protezione provvisoria intorno al Bacino 1; 3) al completamento degli interventi di rimozione e smaltimento dei rifiuti presenti all’interno del fabbricato.”

4. I fatti storici che sono alla base della suddetta decisione sono sostanzialmente pacifici e risultano dal suo contenuto. Nell’area “ex Sitoco” si svolgeva l’attività di produzione di colla e concimi di ossa della Società Si.To.Co. (Società Interconsorziale Toscana Concimi) della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, che nel 1990 fu posta in liquidazione e nell’anno successivo lo stabilimento cessò completamente la produzione. La Laguna Azzurra S.r.l. si era aggiudicata il lotto all’asta giudiziaria in seguito alla procedura di fallimento della Si.To.Co. ed è diventata proprietaria in base al decreto giudiziario del 22.4.2004. L’area era risultata contaminata dalla presenza di rifiuti e materiale inquinante e, rilevata la necessita di bonifica, tale attività veniva affidata dal 2002 al 2012 in via straordinaria al Commissario delegato al risanamento ambientale della laguna di Orbetello.

5. L’odierna società appellante ha censurato i provvedimenti per l’erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, deducendo:

i) il semplice acquisto della proprietà dell’area “ex Sitoco” non giustificherebbe l’emissione, a carico della Società, di provvedimenti impositivi di interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale, stabilendo la normativa in materia che la realizzazione di tali interventi è posta a carico del “responsabile dell'inquinamento” e non del proprietario dell’area stessa, a meno che non sia positivamente accertato il dolo o la colpa di quest’ultimo in ordine ai fatti occorsi, ma tale circostanza non si sarebbe mai verificata nel caso oggetto del giudizio. Il principio di derivazione eurounitaria “chi inquina paga” non consentirebbe alla P.A. di imporre ai soggetti che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull’origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali detentori dell’area, lo svolgimento delle attività di recupero e di risanamento del danno causato da colui che ha in precedenza utilizzato e gestito il sito;

ii) ci sarebbero da rilevare gravi carenze istruttorie del procedimento che avrebbe portato l’Amministrazione ad imporre alla società gravosi interventi, frutto di indagini incomplete e basate su campionamenti non sistemici né organici. Inoltre l’avvio e la conclusione degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica sarebbero stati richiesti entro termini non ragionevoli, in quanto non avrebbero mai potuto essere rispettati (in quanto sarebbe stato necessario per la società e le amministrazioni interessate procedere di concerto atteso che gli interventi avrebbero inciso anche sulle aree di proprietà demaniale).

6. Il TAR, con la sentenza impugnata di cui all’epigrafe, ha dichiarato il ricorso ed i motivi aggiunti improcedibili per sopravvenuta carenza di interesse, argomentando che “va invero evidenziato al riguardo che, come del resto riferito dalla stessa Laguna Azzurra srl, agli atti impugnati, ovvero al decreto n.4877 dell’11 agosto 2008 del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, di approvazione del verbale della conferenza di servizi decisoria del 25 giugno 2008, recante prescrizioni per interventi di messa in sicurezza del sito di interesse nazionale di Orbetello - area ex Sitoco, e alla nota ministeriale di diffida ad adempiere del 30 gennaio 2009, facevano seguito vari interventi, rilevamenti, analisi e monitoraggi, anche della Società ricorrente, i quali conducevano, in ragione del superamento dell’originaria situazione di fatto, all’assunzione di nuovi atti, quali, tra gli altri, le determinazioni conclusive della conferenza di servizi decisoria del 20 giugno 2011 e l’Accordo di programma tra Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Regione Toscana e Comune di Orbetello, per la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza e di bonifica, di cui alla delibera g.r. n.155 del 19 febbraio 2018, che si sostituivano ai provvedimenti impugnati.”

7. La società Laguna Azzurra S.r.l. ha impugnato la pronuncia, deducendo i seguenti motivi.

7.1 Violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.). Violazione dell’art. 35, comma 1, lett. b), c.p.a. Difetto di motivazione della sentenza. Violazione dell’art. 34, comma 3 c.p.a. Secondo l’appellante l’interesse all’accertamento dell’illegittimità degli atti originariamente impugnati sarebbe invece attuale e non superato da successivi atti, attesa l’assenza dei presupposti fattuali e giuridici necessari per la loro adozione. Il TAR si sarebbe invece limitato a dichiarare la sopravvenuta carenza di interesse senza accertare nulla in merito alle ragioni per le quali ciò solo avrebbe determinato il venir meno dell’interesse della ricorrente all’esame dei vizi dedotti. Proprio per il parziale mutamento delle circostanze di fatto non ci sarebbe da registrare una sopravvenuta carenza di interesse alla decisione di merito. Ci sarebbe da rilevare una omessa pronuncia sull’illegittimità dei provvedimenti impugnati anche ai soli fini dell’art. 34, comma 3 c.p.a. In ragione degli obblighi a suo tempo posti a carico della società essa avrebbe investito le proprie risorse per lo svolgimento di analisi ed indagini non dovute e non necessarie se l’Amministrazione le avesse autonomamente svolte prima di limitarsi ad imporle, con atti carenti di una pur minima istruttoria, alla Laguna Azzurra. Le indagini svolte – continua la società – avrebbero dimostrato che gli interventi a suo tempo richiesti sarebbero stati del tutto inefficaci.

7.2 L’appellante ha quindi riproposto ai sensi dell’art. 101, comma 2 c.p.a., i motivi non esaminati dal TAR.

7.2.1 Violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 17 del D.Lgs. n. 22/1997. Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 152/2006. Violazione e falsa applicazione del D.M. N. 471/1999. Violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. Violazione e falsa applicazione della legge 241/1990. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, difetto di istruttoria, illogicità. Sviamento.

7.2.2 Violazione del principio del contraddittorio e della partecipazione nel procedimento; insufficienza di istruttoria.

8. Il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ha resistito al gravame, chiedendone la reiezione.

9. Il liquidatore della Società Interconsorziale Toscana Concimi (SI.TO.CO.) S.r.l. ha anch’esso domandato la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.

10. Infine si è costituita anche l’Istituto Nazionale per l’assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), dichiarando di essere subentrato ex lege al soppresso ISPESL in data 31 maggio 2010 (ai sensi dell’art.7 D.L. 31 maggio 2010, n. 78), nelle funzioni e nei ruoli facenti capo al soppresso Istituto, rilevando l’estraneità dello stesso al giudizio instaurato avanti il Consiglio di Stato e chiedendo l’estromissione dell’Istituto dal giudizio, ed in subordine, nel merito, di confermare l’impugnata sentenza.

11. Le parti hanno ulteriormente insistito sulle rispettive tesi difensive, mediante il deposito di documenti, memorie integrative e di replica e note di udienza.

12. All’udienza pubblica del 18 aprile 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.

13. Va preliminarmente vagliata la richiesta di estromissione da parte di INAIL, successore di diritto di ISPESEL. Ad avviso del Collegio, avendo l’Istituto fatto comunque parte della Conferenza di servizi decisoria e quindi avendo partecipato alla formazione del provvedimento gravato, la richiesta di estromissione è infondata e va respinta.

14. La società appellante si duole dunque dell’error in iudicando avendo il TAR adito tralasciato di accertare – anche se le prescrizioni della Conferenza di servizi erano medio tempore superate da nuove decisioni in merito – l’illegittimità dell’operato della P.A. per un’eventuale risarcimento del danno cagionato all’impresa.

15. L’appello è fondato sotto il dirimente motivo della carenza di istruttoria dimostrata dai successivi provvedimenti adottati.

16. Preliminarmente è però necessario scrutinare l’asserita insussistenza dell’obbligo della società a partecipare alla bonifica dell’area da lei acquistata.

17. Occorre partire dal principio generale di diritto europeo che regola la materia della responsabilità per danno ambientale. Si tratta del principio “chi inquina paga”, espresso dal primo considerando della direttiva n. 2008/98/CE. Il principio è stato applicato, da ultimo, anche alla materia fallimentare (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 26 gennaio 2021, n. 3). Le coordinate esegetiche disegnate dal legislatore europeo e recepite dal legislatore interno si basano su criteri estremamente precisi, chiari e rigorosi nell’attribuzione della responsabilità per danno ambientale, e segnatamente:

a) il quadro giuridico europeo risultante dai principi generali del Trattato e dal diritto derivato non esige lo stretto accertamento dell’elemento psicologico e del nesso di causalità fra la condotta di detenzione del rifiuto in ragione della disponibilità dell’area e il rischio ambientale dell’inquinamento;

b) la normativa nazionale deve essere interpretata in chiave europea e in maniera compatibile con canoni di assoluto rigore a tutela dell’ambiente. Nella sostanza, la sentenza della Adunanza Plenaria n. 3 del 2021 ha incentrato la tutela dell’ambiente intorno al fondamentale cardine della responsabilità del proprietario in chiave dinamica, ossia nel senso di ritenere responsabile degli oneri di bonifica e di riduzione in pristino anche il soggetto non direttamente responsabile della produzione del rifiuto, il quale sia tuttavia divenuto proprietario e detentore dell’area o del sito in cui è presente, per esservi stato in precedenza depositato, stoccato o anche semplicemente abbandonato, il rifiuto in questione. La responsabilità del proprietario del sito, in tal caso, non rinviene necessariamente la propria causa nel cd. fattore della produzione, bensì anche, eventualmente, in quello della detenzione o del possesso (corrispondenti, rispettivamente, al contenuto di un diritto personale o reale di godimento) dell’area sulla quale è oggettivamente presente il rifiuto, dal momento che grava su colui che è in relazione con la cosa l’obbligo di attivarsi per fare in modo che la cosa medesima non rappresenti più un danno o un pericolo di danno (o anche di aggravamento di un danno già prodotto). La responsabilità in questione è pur sempre ascrivibile secondo i canoni classici, comuni alle tradizioni costituzionali degli Stati, della responsabilità per il proprio fatto personale colpevole, dal momento che la personalità e la rimproverabilità dell’illecito risiedono nel comportamento del soggetto che volontariamente sceglie di sottrarsi o, il che è lo stesso, di non attivarsi anche per mera negligenza, per ripristinare l’ambiente;

c) la responsabilità dell’autore materiale del fatto originario generatore del danno ambientale non costituisce un’esimente, né elide, tantomeno in via successiva, la responsabilità di coloro che divengono proprietari del bene o che vantano diritti o relazioni di fatto col bene medesimo;

d) l’ignoranza delle condizioni oggettive di inquinamento in cui versa il bene non esclude la responsabilità di chi ne è successivamente divenuto proprietario.

18. Il Collegio osserva che, contrariamente a quanto affermato dalla società appellante, i principi affermati dalla sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 3 del 26 gennaio 2021 con riferimento alla procedura fallimentare e ai suoi organi sono estensibili anche alla fattispecie del trasferimento giudiziario in seguito all’espletamento di un’asta giudiziaria nell’ambito di una procedura fallimentare.

19. In primo luogo, la sentenza indicata n. 3/2021 ha chiarito che la presenza di rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi assunta dal curatore fallimentare comportino la sua legittimazione passiva all’ordine di rimozione. Conseguentemente, afferma il supremo consesso, “ricade sulla curatela fallimentare l’onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all’art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”. (…) Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare “beni negativi”) ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell’imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti. Conseguentemente, ad avviso dell’Adunanza, l’unica lettura del decreto legislativo n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirato entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all’Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall’impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento. (…) Nell’ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l’attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento. (…) Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica, senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante. (…), per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, della direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti. (…) La curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue l’attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell’esimente di cui all’art. 192, lasciando abbandonati i rifiuti risultanti dall’attività imprenditoriale dell’impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il curatore fallimentare è perciò senz’altro obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero. Il rilievo centrale che, nel diritto comunitario, assume la detenzione di rifiuti risultanti dall’attività produttiva pregressa, a garanzia del principio “chi inquina paga”, è, inoltre, coerente con la sopportazione del peso economico della messa in sicurezza e dello smaltimento da parte dell’attivo fallimentare dell’impresa che li ha prodotti. In altre parole, poiché l’abbandono dei rifiuti e, più ingenerale, l’inquinamento costituiscono “diseconomie esterne” generate dall’attività d’impresa (c.d. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell’imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell’ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento. Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario “chi inquina paga”, ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell’imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilità che, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio. Né in senso contrario assumono rilievo le considerazioni, pur espresse dalla difesa, concernenti l’eventualità che il fallimento sia, in tutto o in parte, incapiente rispetto ai costi della bonifica. Si tratta invero di evenienze di mero fatto, peraltro configurabili anche in ipotesi riferibili a un imprenditore non fallito, o al proprietario del bene o alla stessa amministrazione comunale che, in dissesto o meno, non abbia disponibilità finanziarie adeguate. Ciò che rileva nella presente sede è l’affermazione dell’imputabilità al fallimento dell’obbligo di porre in essere le attività strumentali alla bonifica. In caso di mancanza di risorse, si attiveranno gli strumenti ordinari azionabili qualora il soggetto obbligato (fallito o meno, imprenditore o meno) non provveda per mancanza di idonee risorse. E il Comune, qualora intervenga direttamente esercitando le funzioni inerenti all’eliminazione del pericolo ambientale, potrà poi insinuare le spese sostenute per gli interventi nel fallimento, spese che godranno del privilegio speciale sull’area bonificata a termini dell’art. 253 comma 2 d.lgs. n. 152-2006”.

20. Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, la Sezione rileva che le procedure giudiziarie di liquidazione con cessione totale dei beni, pur differenziandosi sotto il profilo civilistico dalle modalità liquidatorie e degli organi impegnati al riguardo, possiedono analoghi effetti finali: infatti, anche in questo caso, così come nel fallimento, l’impresa cessa la propria attività e pone tutto il suo patrimonio residuo a disposizione dei futuri acquirenti. In ragione di ciò, i principi sopra riportati della sentenza dell’Adunanza plenaria si attagliano anche alla procedura di liquidazione con cessione dei beni, per cui i costi da sostenere per porre rimedio alle “esternalità negative” di produzione (sanitarie, ambientali, di pubblica incolumità, etc.) devono ricadere su chi acquista con piena coscienza dell’inquinamento e con preciso comando giudiziale; diversamente opinando, quei costi ricadrebbero sulla collettività incolpevole.

21. Ciò trova conferma nella precisa disposizione del decreto di trasferimento: l’acquirente ne assume la detenzione e nella sua posizione di “detentore” ha l’obbligo di porre in essere ogni attività necessaria a garantire nel perimetro della ex industria il rispetto della tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Il decreto del giudice delegato del Tribunale Fallimentare di Roma del 22.4.2004 ha infatti “preso atto delle precisazioni contenute nell’istanza del curatore sulla situazione dell’immobile in relazione all’inquinamento, agli obblighi di bonifica e di messa in sicurezza, obblighi tutti che in virtù del presente decreto di trasferimento verranno anch’essi integralmente trasferiti all’aggiudicataria Società Laguna Azzurra”. Emerge inoltre dal medesimo decreto che “il bene deve essere trasferito libero da tutte le iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, ma con i gravami derivanti dal suo inserimento dei siti inquinati di interesse nazionale e soggetto ad interventi di bonifica in virtù della legge 31.7.2002 n. 179, art. 14, comma 1, lett. P, pubblicata della Gazzetta Ufficiale n. 189 del 3.8.2002”. Tale trasferimento è stato accettato da Laguna Azzurra, che, partecipando all’asta giudiziaria, era a conoscenza di tutte le circostanze in ordine all’inquinamento del sito e dei rispettivi obblighi di bonifica, che sicuramente sono stati considerati anche nella stima del prezzo del bene. Ove l’acquirente fosse ritenuto esente da tali obblighi, la collettività sarebbe esposta a rischi ambientali e sanitari cagionati dall’attività imprenditoriale stessa, il che non è ammissibile.

22. Ma la società appellante ha ragione quando afferma che il TAR aveva omesso di valutare il permanente interesse al ricorso, anche soli ai fini dell’eventuale risarcimento del danno derivante dall’avvenuta esecuzione dei provvedimenti gravati.

23. Innanzitutto emerge dalla cronistoria delle attività di bonifica del SIN di Orbetello – che sostanzialmente viene confermata anche dal Ministero appellato – che l’eventuale attività di bonifica ritenuta in origine necessaria dall’Amministrazione potrebbe aver arrecato un danno alla società. Gli esiti delle conferenze di servizi succedutesi nel tempo, in particolare quella del 12 giugno 2014 sembrano infatti confermare presupposti diversi da quanto originariamente posto a base delle decisioni del 2008 e quindi permaneva l’interesse della ricorrente, se non all’annullamento di atti ormai superati, quanto meno all’accertamento dell’illegittimità dei medesimi atti originariamente impugnati, in particolare quanto all’accertamento dell’assenza dei presupposti fattuali e giuridici necessari per la loro adozione.

24. Il mutamento delle circostanze di fatto deponevano infatti per la necessità di scrutinare le domande attoree, anche ai soli fini dell’art. 34, comma 3 c.p.a. L’obbligo di pronunciare sui motivi di ricorso ovvero di accertare l'illegittimità dell'atto impugnato sussiste in caso di istanza, o, comunque, espressa dichiarazione di interesse della parte ricorrente ai fini risarcitori (Cons. Stato, A.P., n. 8/2022). Nonostante l’espressa richiesta della ricorrente in tal senso (v. memoria ex art. 73 c.p.a. nel giudizio di primo grado nonché verbale di udienza pubblica 13.11.2019), il TAR non si è pronunciato su tale domanda (subordinata), incorrendo quindi nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), nonché degli artt. 35, co. 1, lett. b), e 34, co. 3, c.p.a.

25. Il lamentato deficit istruttorio può essere accertato alla luce delle seguenti considerazioni:

- nel caso di specie, le decisioni della conferenza di servizi sono state emesse prevalentemente in relazione a studi che avevano ad oggetto prime analisi di approccio, con valore di studio preliminare, senza che si sia provveduto in quel momento ad una completa ed approfondita caratterizzazione dei sedimenti delle aree inquinate;

- il d.lgs. n. 152/2006 disciplina i presupposti istruttori di ciascun intervento, essendo necessario accertare con precisione sia il livello che la qualità dell’inquinamento, allo scopo sia di determinare le cause e quindi individuare i responsabili, sia di selezionare le appropriate tecniche di disinquinamento da adottarsi (art. 240 e 242 d.lgs. 152/2006);

- dalla nota della Laguna Azzurra del settembre 2008 emerge il rilievo sulla complessità della problematica che investe l’intero comparto perimetrato come S.I.N. ed anche l’approfondimento di indagine finalizzato alla raccolta di un numero sufficiente di informazioni circa lo stato di contaminazione delle acque di falda al fine di definire in maniera incontrovertibile le responsabilità e gli eventuali interventi di protezione e messa in sicurezza da porre in essere, oltre alla mancanza di accertamento del superamento della CSR (concentrazione soglia di rischio), previsto dall’art. 240 lett. c) del d.lgs. n. 152/2006 (elementi che giustificano la necessità di eseguire interventi di messa in sicurezza dell’area);

- orbene, risulta dalla memoria del Ministero appellato del 26.2.2024 (p. 4) che “invero, come risulta da quanto detto in precedenza, all’epoca in cui è stato emanato il provvedimento impugnato (2008) la falda profonda mostrava una diffusa contaminazione, tale da necessitare interventi di messa in sicurezza e rimozione dei rifiuti. Solo i monitoraggi successivi al 2010 hanno evidenziato la non contaminazione della falda profonda.”;

- la carenza di istruttoria emerge anche dall’Atto Integrativo all’Accordo di Programma per la bonifica del SIN “ex Sitoco” stipulato nel 2018, dove risulta, nell’intervento 1, che “Le indagini propedeutiche che si propone di effettuare sono parte sostanziale del “Progetto definitivo di bonifica dell’acquicludo superficiale mediante marginamento fisico” che il soggetto privato, Laguna Azzurra, deve realizzare in attuazione del decreto n. 330 del 27/08/2015 del MATTM (ora MiTE). Il progetto, autorizzato dal Ministero in via provvisoria per motivi di urgenza con decreto n. 536 del 4/08/2010, ha visto avviati i lavori nel febbraio 2011; lavori che però sono stati realizzati solo parzialmente e in maniera difforme a quanto autorizzato. Il marginamento fisico, oltre che essere stato realizzato difformemente, non è stato completato dal sistema tergale di captazione (drenaggio e emungimento), né connesso a un impianto di trattamento delle acque sotterranee provenienti dalla Cittadella; sistema di captazione che, come riportato nel verbale della Conferenza dei servizi del 24/03/2005, “data la bassa soggiacenza della falda potrà essere sostituito da un sistema a trincea drenante”. Ad esito dei tavoli tecnici svolti su mandato del ministero al fine di definire in maniera sinergica gli interventi sia per la parte PRIVATA che per la parte PUBBLICA del SIN, è stato concordato che il completamento dell’intervento di marginamento al fine di essere realmente efficace e impedire l’ingresso delle acque potenzialmente contaminate dell’acquifero superficiale circolante sotto la Cittadella, dovrà essere realizzato da Laguna Azzurra secondo una soluzione alternativa della parte meridionale del tracciato della palancolata.”;

- la lettera della società del 6.4.2021 indirizzata al Ministero – depositata dalla stessa parte appellata (doc. 13 in appello) e non confutata dalla P.A. –, riassumendo i rilievi sul Masterplan degli interventi pubblici e privati, confermava inoltre che “la falda profonda non necessita di essere bonificata”;

- ciò conferma che il livello di istruttoria a base delle prescrizioni dettate alla società nel 2008 risultava prematuro ed insufficiente, mancando in primis il necessario coinvolgimento della parte privata, indispensabile per un efficiente svolgimento dei lavori di bonifica.

26. Si può quindi giungere alla conclusione che le prescrizioni impartite dalla Conferenza di servizi, oltre ad essere incomplete in quanto non avevano preso sufficientemente in considerazione i contributi del privato, contrariamente a quanto è avvenuto successivamente agli atti del 2007-2008, erano premature e non potevano (non avrebbero potuto) quindi disporre tali azioni di indagine e di bonifica a carico del privato.

27. Il Collegio non reputa necessario in questa sede approfondire se ad essere errate fossero le metodologie adottate – come asserisce la società appellante – o cosa abbia abbia condizionato l’esito in maniera determinante.

28. Dall’esame complessivo della vicenda il Collegio ravvisa comunque la notevole complessità del progetto di bonifica, con molte parti coinvolte (sia pubbliche che privati), diversità di gradi, volumi ed intensità di inquinamento (anche nel tempo).

29. In base a queste considerazioni l’appello va accolto, con il conseguente accertamento dell’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ai sensi dell’art. 34 cod. proc. amm.

30. La particolarità della vicenda è sufficiente per poter compensare le spese di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza, ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., accerta l’illegittimità degli atti gravati con il ricorso di primo grado ed i motivi aggiunti. Compensa le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati:

Hadrian Simonetti, Presidente


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